Coscienza della morte e secolarizzazione.

L’uomo, per quanto ne sappiamo, è l’unico animale consapevole di essere mortale.

Grazie al suo cervello, notevolmente più sviluppato di quello di ogni altro essere vivente, l’essere umano non è “attaccato al piolo del presente “, ma è in grado di astrarsi dalla situazione attuale, ricordare il passato e immaginare il futuro.

Ciò significa che l’uomo è anche l’unico animale ad avere una coscienza,  cioè ad essere pienamente consapevole di sé in quanto ente autonomo rispetto all’ ambiente in cui vive, l’unico a poter dire: “Io”. Grazie alla memoria l’uomo non è ,  come scrisse Hume, “un fascio di sensazioni “, ma ha un’identità personale,  una coscienza che gli permette di riferire a sé ciò che ha fatto e gli è un è successo in passato, provando ad esempio rimorso o rimpianto,  e di proiettarsi nel futuro,  provando speranza o paura.

Questa consapevolezza di sé, la capacità di pensare e riflettere, di prendere le distanze da ciò che gli è presente, come l’ambiente in cui si trova o i propri impulsi, sicuramente ha dato all’ uomo un grande vantaggio  rispetto a tutti gli altri animali, che infatti è riuscito a dominare grazie alla ragione,  ma gli ha portato anche il frutto amaro della consapevolezza della propria morte.

Già, l’uomo, ogni uomo, sa che, prima o poi, morirà,  e  questo rappresenta un grande peso.

Come continuare a vivere, una volta raggiunta questa certezza? La natura spinge l’uomo, come ogni animale,  a vivere e a riprodursi, a fuggire il dolore e ricercare il piacere, ma la coscienza dice all’uomo che tutto ciò è inutile,  perché,  per quanto faccia,  non potrà sfuggire al dolore e alla morte.

È a questo punto che,  nella coscienza dell’uomo, nascono  le “domande di senso”, quelle domande fondamentali, cui non c’è risposta,  ma che l’uomo, in quanto tale,  non può fare a meno di porsi: “Chi sono?”, “Dove sono?”, ma  soprattutto: “Dove vado?”.

Nonostante su di esse si faccia spesso una facile ironia  ( figlia forse dell’angoscia di fronte a problemi così radicali ), nessun uomo può evitare di fare i conti con quesiti, e  le culture si distinguono e caratterizzano anche  per il modo in cui rispondono ad esse.

Fino a quando l’Occidente era cristiano  la risposta a queste domande era semplice : “Io sono una creatura di Dio, caduta in questa valle di lacrime a causa del peccato originale,  ma  destinato alla vita eterna” (a patto di rispettare la volontà di Dio, predicata dalla Chiesa ).

La rivoluzione scientifica e l’illuminismo,  però,  hanno incominciato a mettere in crisi questa risposta, ma non l’esigenza di dare un senso alla vita  (e quindi alla morte).

Con l’illuminismo,  l’uomo ha cominciato a pensare alla propria ragione come a qualcosa di completamente autonomo rispetto alla tradizione e all’insegnamento della Chiesa e, assolutizzato il metodo scientifico,  grazie soprattutto al positivismo, a iniziato a negare l’esistenza di Dio è di una realtà trascendente.

Niente più paradiso e vita eterna,  quindi.  Dio è morto. Ma l’esigenza di dare un senso alla vita,  e  quindi alla morte e al dolore,  è rimasta.

Che vivo a fare se sono destinato alla sofferenza e alla morte?

È a questo punto che è iniziata la “immanentizzazione della trascendenza “: se non esiste alcun aldilà,  l’unico modo per dare senso all’esistenza è realizzare il paradiso nell’aldiqua’.

La vita è diventata “ricerca della felicità “, come recita la Dichiarazione d’Indipendenza americana; grazie alla Dea Ragione  l’uomo sconfiggera’ ignoranza,  miseria e malattia.  Cosa c’è di più bello e paradisiaco?

Peccato che questo progetto richiedeva tempo,  non poteva essere realizzato nel corso di una generazione o nel breve arco della vita di un uomo.

L’uomo,  che aveva rinunciato a credere in Dio,  ha quindi dovuto iniziare a credere nell’Umanità,  vale a dire a divinizzare se stesso,  come ha esplicitamente detto Feuerbach.

Ma cosa ha fatto, l’Umanità (per lo meno quella Occidentale) dopo aver preso coscienza di sé ed essersi assunta questo titanico compito?  Lo sanno anche gli studenti più scarsi: si è logicamente dedicata alla distruzione del passato e delle tradizioni,  sperando di trovare nel futuro la “terra promessa”, ed ha generato ideologie totalitarie e due guerre mondiali.

Con la seconda guerra mondiale e lo sterminio degli ebrei,  l’Occidente ha definitivamente “perso la sua verginità”, ed è entrato nell’età del disincanto.

Fine delle ideologie, fine delle “grandi narrazioni”: chi crede veramente,  ormai, nelle grandi promesse dell’illuminismo? Chi crede più nell’Umanità?

Ma come fare, allora, a riempire il vuoto lasciato dai grandi ideali del passato?

La risposta ce l’ha data, anzi,  ce la dà tutti i giorni,  il capitalismo globalizzato: produrre, guadagnare e consumare il più possibile.

La felicità non sta nel vivere sperando nella salvezza dell’anima,  e  nemmeno nel tentativo di realizzare un mondo più giusto; la felicità consiste nell’oggetto e nel momento del consumo. Solo che si tratta di una felicità effimera e imperfetta, che svanisce già nel momento in cui si prova, e si accompagna ad un senso di insoddisfazione e di angoscia,  che richiede “dosi” sempre maggiori per essere sedato.

Ne nasce una “rincorsa all’infinito”, che ha prodotto  (e continua a produrre) la distruzione delle risorse del pianeta e  delle vite individuali.

E quindi? Qual’è il senso della vita dell’uomo?

Forse va ricercato in questi due passi, per quanto amari: “Vanità delle vanità,  dice Qoèlet, vanità delle vanità,  tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?” (Qoèlet 1, 2-3); “Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto. (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32).

 

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