Dalle “illusioni parallele” al “bene comune”.

Viviamo, da qualche decennio a questa parte (almeno dagli anni ottanta del secolo scorso) all’interno di una società e di una cultura che ci spingono sempre, costantemente, ossessivamente, a “seguire i nostri sogni”. “Insegui il tuo sogno”, “non lasciarti abbattere (dalla realtà)”, “sii resiliente” sono le parole d’ordine che da ogni parte (istituzioni, mass media, gruppi di amici e conoscenti, parenti) ci vengono ripetute fino allo sfinimento, non solo da quando è iniziata questa pandemia, ma (per chi è abbastanza giovane) da sempre. “Che problema c’è?” si potrebbe obiettare “i sogni sono qualcosa di bello, di stupendo anzi, ci aiutano a vivere e ad andare avanti!”. Sì. Peccato che, però, la stessa società e la stessa cultura che, da una parte, ci propongono (se non addirittura impongono) questo ideale “caldo”, fondamentalmente romantico e individualista (ben sintetizzato dal famoso motto di Steve Jobs “Stay angry, stay foolish”) dall’altra, quotidianamente, ci irregimentano in un sistema economico-sociale ed amministrativo-burocratico, dal quale la dimensione del sogno è completamente assente: un sistema “freddo” in cui ciascuno di noi è una “pedina” intercambiabile di uno scacchiere immenso e mutevole, di cui non riesce neanche a scorgere i confini, lo scacchiere della globalizzazione economico-finanziaria del pianeta, di cui la dimensione politica è diventata (sia a livello globale, sia a livello locale) semplice amministratrice. Questo contrasto, questa “schizofrenia” tra la dimensione “calda”, ma immaginaria, del sogno e la dimensione “fredda”, ma tremendamente reale, del sistema economico, sociale, politico e amministrativo, non può che creare disagio e frustrazione. Si ha un bel parlare di “resilienza”: la resilienza si dà solo a certe condizioni, non può essere affidata solo alla fantasia dei singoli!! Ecco che, allora, i sogni si trasformano in incubi e le illusioni in delusioni, con tutto il loro portato di sofferenza psicologica e comportamenti disfunzionali e violenti. Quante tragedie personali e familiari derivano da questa disillusione che diventa disperazione? Quanti suicidi? Quante separazioni? Quante fughe nell’alcool, nelle droghe o nel gioco? Forse la soluzione a questo dramma non sta nel fare appello, ormai ossessivamente e vanamente, alla “resilienza” (individuale o collettiva) ma nel cambiare il paradigma antropologico di fondo. Nel passare dal regime individuale del “sogno” , a cui fa da necessario contraltare il regime totalitario e massificante del “sistema”, al regime comunitario del “progetto”. Da una società che si fonda su un arcipelago di “isole”, ciascuna intenta ad inseguire solipsisticamente le proprie fantasticherie, ad una società fatta di “soggetti in relazione”, che, grazie a questa “relazione” (a questo “tra” avrebbe detto Martin Buber) costruiscono insieme, a partire dai rapporti interpersonali fino ad arrivare alla dimensione globale, il “bene comune”.

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