
In questi giorni, tutti stiamo ancora festeggiando, ovviamente e giustamente, le prestigiose vittorie dei nostri atleti alle olimpiadi, in particolare le strepitose affermazioni di Gianmarco Tamberi nel salto in alto e di Marcell Jacobs nella gara regina della velocità, i 100 metri.
Bene, benissimo. Però forse potremmo, almeno per un attimo, sospendere i festeggiamenti e mettere da parte l’esaltazione e riflettere per qualche istante, facendoci delle semplici domande: perché? Perché festeggiamo le vittorie? Perché celebriamo i vincenti?
Le risposte a questi quesiti potrebbero sembrare talmente ovvie da far considerare le domande stesse come prive di senso.
Del resto ce l’hanno spiegato ampiamente, in questi giorni, i cronisti, i giornalisti sportivi e tutto il sistema dei media italiani: Tamberi e Jacobs (ma, implicitamente, in questo discorso sono compresi anche tutti gli altri vincitori nostrani e, più ampiamente, i vincitori in generale) hanno vinto perché si sono allenati duramente per anni; hanno vinto grazie alla loro dedizione, passione, forza d’animo, che gli hanno permesso di superare tutte le difficoltà che hanno incontrato sul loro cammino (la rottura del tendine d’Achille, nel caso di Tamberi e un numero non ben definito di generiche difficoltà, testimoniate soprattutto dalla madre, nel caso Jacobs).
Dunque Tamberi e Jacobs hanno vinto perché se lo sono meritati!! Dopo un periodo, più o meno lungo e duro, di difficoltà e di buio, sono riusciti, grazie alla loro volontà e alle loro qualità, ad emergere; sono usciti dal tunnel e sono “tornati a riveder le stelle”.
Insomma: sono stati RESILIENTI (parola d’ordine e valore massimo, in questo periodo di fine – forse – pandemia) e, con la loro determinazione e le loro vittorie, hanno dato l’esempio a tutti gli italiani, che festeggiano identificandosi con loro (anche se, magari, non hanno mai praticato in vita loro alcuno sport e l’unica disciplina in cui eccellono è fare zapping con il telecomando).
Bene!!
E gli altri?
Tutti coloro che non hanno vinto?
Tutti quelli che hanno perso, che non sono riusciti a raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati, insomma, in una parola: gli sconfitti?
Se vince chi si impegna ed è resiliente, ed è quindi meritevole e degno della vittoria e della felicità, dovremmo dedurne che chi perde non si è impegnato abbastanza, o non è stato abbastanza determinato o, comunque, non ha “creduto” a sufficienza nel suo “sogno” (“Ridatemi il mio sogno”, gridava infatti Tamberi, nel 2016, subito dopo il suo infortunio); quindi perde chi è immeritevole, chi è indegno della vittoria e della felicità e dunque, giustamente, soffre ed è infelice.
Alla sconfitta si aggiungerebbe, in questo modo, una colpa, un difetto morale, anzi, la massima ignominia possibile nel nostro tempo, dominato dall’autodeterminazione dell’individuo e dalla sua individuale aspirazione alla felicità: la colpa di non aver creduto abbastanza nel proprio sogno!
Il problema è che, spesso, le cose non stanno così.
Innanzitutto per un motivo di tipo banalmente matematico: l’esistenza di un vincitore implica l’esistenza di una schiera di “perdenti” (dal secondo all’ultimo). Non tutti possono vincere, anzi, i vincitori sono sempre necessariamente una minoranza.
In secondo luogo: non è affatto detto che chi arriva secondo, o addirittura ultimo, si sia impegnato di meno di chi ha vinto, ci abbia messo meno passione e determinazione, abbia dovuto superare meno difficoltà. Non è detto che abbia “creduto di meno nel proprio sogno”. Cominciamo quindi a togliere, dalla sconfitta, almeno lo stigma della colpa implicito nel dire che vincono “i più meritevoli”.
Non sappiamo se chi vince sia il più meritevole (quello che ci ha creduto di più, si è impegnato di più, etc.); sappiamo solo, di fatto, che chi vince è stato (almeno in quell’occasione) il più forte. E, fino a prova contraria, non c’è alcun merito “morale” nell’essere il più forte, così come non c’è nessun demerito nell’essere il più debole.
Bisognerebbe poi aggiungere che, spesso, chi perde, perde proprio perché è partito da una situazione svantaggiosa rispetto agli altri; perde perché molto spesso (o forse sarebbe meglio dire quasi sempre) anche nello sport non ci sono “pari opportunità”. Per non parlare di tutti quei milioni di persone che lo sport non sanno nemmeno cos’è, che non possono nemmeno, decoubertinianamente, “partecipare”, perché sono impegnati a risolvere problemi più impellenti, come ad esempio non morire di fame e di sete, o sopravvivere a qualche guerra.
E quindi? Siamo ancora così sicuri che i vincitori siano i migliori, nel senso dei più meritevoli? Siamo ancora così sicuri che siano gli unici a dover essere celebrati?
Che dire, poi, di coloro che, pur avendo i mezzi e le qualità per farlo, non riescono a vincere, magari per un difetto di carattere, perché “soffrono la gara”, o per qualche blocco mentale (si veda la statunitense Simon Biles)? Si meritano la sconfitta e, quindi, l’infelicità? Sono persone meno “degne” delle altre? Si sono impegnati di meno? Hanno creduto di meno nel loro sogno? Oppure, semplicemente, per qualche motivo, a volte insondabile, hanno sbagliato? O sono stati sfortunati?
E’ paradossale che nella nostra società, a parole così “inclusiva”, in cui (teoricamente) “uno vale uno” e tutti hanno “pari dignità, senza distinzione di sesso, razza, lingua…condizioni personali e sociali”, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione, si dia così tanta importanza al “successo” e, di conseguenza, si celebrino quasi esclusivamente i vincitori, senza curarsi troppo delle condizioni di partenza di ciascuno e delle “pari opportunità”.
Se proprio pensiamo che la competizione e il successo siano dei valori, allora cerchiamo almeno di fare in modo che il maggior numero di persone possibile possa partecipare al gioco (non solo dello sport, ma anche dell’economia, dell’istruzione, della politica) a parità, per quanto possibile, di condizioni. Insomma: cerchiamo, per quanto possibile, di ridurre le disuguaglianze economico-sociali che in tutti gli ambiti, sia a livello globale, sia a livello locale, riducono per molti le possibilità di partecipazione e, quindi, di vittoria.
In una situazione come questa, caratterizzata da disuguaglianze colossali, che senso ha, dunque, lo sport? Che senso ha la celebrazione della vittoria e dei vincitori?
Io penso che lo sport abbia valore soprattutto in quanto jihad, inteso come “lotta interiore”, impegno di miglioramento costante di sé, streben, nel senso fichtiano del termine.
Gareggiare con l’altro, e cercare di superarlo, è il mezzo per gareggiare con se stessi: per mettersi alla prova, per scoprire ed, eventualmente, superare i propri limiti.
La vera vittoria, anche nello sport, non è mai solo e tanto la vittoria sull’altro, ma la vittoria su di sé: sulle proprie pigrizie, le proprie paure, i propri “difetti”.
Lo sport, inteso e praticato in questo modo, può effettivamente diventare “scuola di vita”, “disciplina”, palestra di perfezionamento continuo, conseguibile solo grazie alle tanto (a volte troppo) citate passione, determinazione, volontà, dedizione.
Chi vince contro di sé ed i propri limiti, fisici e psicologici, ha sempre effettivamente vinto, indipendentemente dal risultato della gara (e viceversa: da questo punto di vista, si può perdere anche vincendo).
Resta, però, un problema.
Che fare quando non si riesce a vincere, né contro gli altri, né contro di sé?
Che fare quando, nonostante tutto l’impegno, non ci si riesce a migliorare?
Che fare quando, nonostante tutto, si fa l’esperienza della “sconfitta”, nel senso più profondo del termine?
Ecco, penso che questa sia l’esperienza più importante: l’esperienza del limite (fisico o psicologico) che non si riesce ad eliminare, è un’esperienza fondamentale, da non rimuovere, ma da vivere fino in fondo e a cui dare senso.
È l’esperienza della FINITEZZA dell’essere umano che, in un certo senso, anticipa l’esperienza verso la quale tutti, inevitabilmente, campioni o meno, tendiamo, l’orizzonte che tutti ci attende: l’esperienza della morte.
Di fronte alla sconfitta, di fronte al limite che non si riesce ad eliminare, l’unico atteggiamento sensato e autenticamente umano è la serena e dignitosa accettazione.
È un atteggiamento difficile da maturare, soprattutto all’interno di una cultura che ci spinge sempre ad “andare oltre” e a negare, ancor più che a superare, l’esistenza del limite, ma penso che sia l’atteggiamento che, più di ogni altra cosa, ci rende uomini.
Alleniamoci e alleniamo i nostri figli a vincere, a superarsi e a superare limiti e difficoltà. Ma, soprattutto, alleniamoci e alleniamoli alla sconfitta.
Vincere è stupendo, ed è giusto gioire e godere delle vittorie. Ma la grandezza di un uomo si vede soprattutto nel modo in cui riesce ad affrontare la sconfitta, il dolore e la morte.